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“Cosa ricordo del derby del 5 dicembre 2020 visto alla tv con Paolo Rossi nella sua stanza al Policlinico? Che il Torino perse, come al solito. Stavamo vincendo, ci batterono nel finale. Io cercavo di rendere più leggera una situazione tragica, volevo far sentire a Paolo che anche i momenti gravi fanno parte della vita”. Giuseppe Oliveri, per 20 anni direttore dell’Unità operativa di Neurochirurgia al Policlinico Santa Maria delle Scotte a Siena, una lunga carriera da neurochirurgo, in pensione da poco e autore del libro ‘Le mani e la mente’ scritto assieme alla giornalista Giulia Maestrini, non vorrebbe parlare dei tanti pazienti eccellenti che ha operato in 40 anni di professione: Paolo Rossi e Alex Zanardi per citarne solo due, oltre a Valentina Truppa, campionessa olimpionica di dressage, operata nel 2015 dopo un incidente a cavallo. Bisogna estorcergli i ricordi, mettere insieme i racconti della moglie di Pablito, Federica Cappelletti, e dell’allora direttore generale del Policlinico senese, Valter Giovannini, per indurlo a completare il mosaico.
La vittoria della Juve al 90’ fu una delle ultime gioie per Paolo Rossi. Morì pochi giorni dopo..
“Fu uno dei suoi ultimi sorrisi. Bonucci segnò all’ultimo minuto, ma quasi quasi ero contento che avesse vinto la Juventus. E’ l’unica volta nella mia vita che non ero triste per aver perso un derby”.
Da dove viene la sua passione per il Toro?
“Le sembra strano perché sono nato a Milano e ho lavorato per oltre 20 anni a Siena? Prima però ho vissuto dieci anni a Novara, tre anni a Torino e altri tre a Cuneo. Sono finito in Piemonte per lavoro, mi ci sono trovato benissimo. Sto parlando con lei dalla Val Maira, una delle valli più belle del Piemonte e sono appena tornato da una escursione. Cosa amo di questa terra? Le valli, le montagne e i piemontesi. Sono gente seria, sono gente buona”.
L’Italia scoprì la sua bravura e la sua umanità il 21 giugno 2020, quando si presentò davanti a un plotone di telecamere e di taccuini di giornalisti, il mattino dopo la complicata operazione che salvò la vita a Alex Zanardi. Paolo Rossi era già ricoverato nel suo reparto, il direttore Giovannini rivelò a mezza voce che Zanardi non era l’unico campione in cura a Siena.
“Sì, era già ricoverato a Siena. Ma a me non piace parlare di queste cose. Nel nostro mestiere vivi tante situazioni tragiche, ci sono giovani con traumi gravissimi, tumori fatali. Alle madri costrette a fare scelte tra la vita e la morte, non puoi dare l’impressione che per te è più importante curare Paolo Rossi o Zanardi dei loro figli. Tutte le vite sono ugualmente importanti”.
Rossi fu ricoverato diverse volte nel suo reparto?
“Lo confermo solo perché l’ha già detto Federica. L’ho operato all’addome quando era il caso di operarlo. L’ultimo ricovero era stato deciso per controllare meglio i sintomi del male. Anche se tu puoi fare poco, meglio che i pazienti stiano in ospedale”.
Cosa ricorda della conferenza stampa all’ingresso del Policlinico dopo l’operazione a Zanardi?
“Niente di particolare, solo la curiosità eccessiva di voler scoprire dettagli e gossip su un campione. Una cosa che non mi è mai piaciuta. La famiglia di Zanardi, soprattutto la moglie Daniela, si è sempre trincerata dietro un dignitoso riserbo. Non parlarono mai con i giornalisti. A me sembrava di violare la loro intimità familiare, perciò non dissi molto”.
Parlarono altri per lei. Rivelando che, quando Alex Zanardi arrivò al Policlinico con l’elisoccorso, dopo lo scontro sull’handbike con un Tir sulla strada per Pienza, fu lei che decise di operarlo. “Penso che questa battaglia possa essere vinta, possiamo tentare”, disse alla moglie Daniela e al dg Giovannini.
“Lo operai due volte per curare il gravissimo trauma cranico e per ricostruirgli la faccia. Poi per delle complicanze, perché aveva problemi a controllare la pressione endocranica. So che Zanardi è ancora in cura a casa, io ho preferito non chiedere più nulla. Se Daniela ha bisogno di me, può chiamarmi quando vuole. Sono contento di come mi sono comportato in quella occasione”.
Parliamo di una sua paziente non famosa. Cosa ricorda di Tetiana, la giovane donna ucraina che doveva essere operata d’urgenza a Kiev, ma per l’invasione russa fu costretta a scappare?
“Era venuta a Siena, perché aveva una zia a San Gimignano che la accolse. Soffriva di una discopatia cervicale con grave compressione sul midollo spinale. Mi fece molta impressione perché per la prima volta mi trovai ad operare una persona costretta a fuggire in fretta dalla sua vita normale. Ho operato tanti migranti, persone scappate da fame e miseria. Ma Tetiana fino a pochi giorni prima aveva una vita come la nostra. Fu costretta a scappare per quattro giorni, fece un bel pezzo di strada a piedi, con quel dolore lancinante. Erano le prime settimane di guerra in Ucraina”.
Dopo l’operazione Tetiana è tornata a Kiev o è rimasta a San Gimignano?
“Non lo so. So solo che l’intervento riuscì perfettamente. Il mio compito era terminato con la sua guarigione”.
Nel suo libro lei racconta di aver eseguito più di 15mila interventi chirurgici.
“E’ il numero complessivo di una vita, hanno tutti lo stesso valore per me. Relazionarti con la madre del ragazzo che ha un trauma gravissimo è uguale al rapporto con Federica, la moglie di Paolo. Il clamore mediatico è molto meno importante dell’impatto emotivo con i familiari. Ho scelto come titolo del libro ‘Le mani e la mente’ perché il nostro è un lavoro che si fonda sull’interazione tra cervello e uso delle mani. Sono fondamentali tutte e due le cose”.
Come si è trasformata oggi la professione di neurochirurgo?
“Non potrei dirlo con esattezza. Ci sono diverse persone che operano e si relazionano con i pazienti come facevo io, altre che scelgono strade diverse. Ma è cambiato il mondo della sanità. E’ cambiato il modo di vivere la malattia e la morte. Quando ho cominciato io c’era la consapevolezza assoluta che la malattia e la morte fanno parte della vita. Oggi non c’è più, le persone non vogliono invecchiare, ammalarsi, morire. Quando questo accade, si tende a dare la colpa a qualcuno”.
Lei odia il termine ‘azienda’ applicato a un ospedale?
“Ritengo che i soldi pubblici non debbano essere sprecati nella sanità. Ma se tenere ricoverato un paziente qualche giorno in più gli fa bene, questo non va considerato uno spreco.
Continua a operare dopo il pensionamento dal policlinico? O preferisce la politica alla neurochirurgia?
“Sono vicesindaco a Cinigiano, Comune alle pendici dell’Amiata, perché me l’ha chiesto il sindaco. Mi piace l’idea di vedere cosa si può fare amministrando un Comune. Faccio un po’ di ambulatorio e qualche consulenza. Ma non opero più. Il mio mondo è sempre stato quello della sanità pubblica. Mi sembrerebbe di tradire tutta la mia storia se operassi in qualche clinica privata”.