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Caro direttore, la politica rende omaggio alla cultura con uno zelo che ne rivela per metà la passione e per metà la paura. Infatti non c’è dibattito sull’egemonia che non venga accompagnato da un profluvio di citazioni ed evocazioni letterarie. Come a confermare che anche il potere conosce le lettere, seppure (almeno a parole) non pretende di sottometterle. Il ministro Giuli, che è persona colta, per togliersi di dosso lo stigma di una dichiarazione non proprio cavalleresca verso i suoi avversari acculturati ha pensato bene di evocare una discreta quantità di citazioni di autori e di opere. Seguendo così il filo di un costume che rivela –insieme– il talento e (forse) un complesso.

Personalmente discendo da una storia politica ricca di molta cultura ma assai poco propensa ad esibirla. I discorsi dei grandi democristiani di una volta assai raramente venivano farciti di citazioni illustri. E all’epoca un eccesso di spirito letterario e spettacolare veniva considerato quasi come una forma di frivolezza. C’era una sorta di diffidenza verso chi ostentava la propria sapienza fuori dai confini dell’attività politica e amministrativa. Talvolta quella diffidenza generava dei veri e propri scivoloni, come quella volta che Mario Scelba parlò con infelice supponenza del “culturame” che sentiva così ostile a sé e al suo partito. Ma se quell’avversione si rivelò infelice, e a suo tempo venne giustamente pagata cara, in compenso la linea divisoria chiamata a separare potere e cultura sembrava alludere a un principio di stampo liberale. In una parola, si intendeva dire che gli intellettuali potevano magari essere combattuti ma non dovevano essere ingaggiati per la causa. Piuttosto avversati che non assoggettati.

Da allora è passata molta acqua sotto i ponti e i diritti e le pretese si sono ampliati entrambi. Il politico dei nostri giorni non ha più il complesso della sua supposta ignoranza e anzi rivendica ed esibisce con orgoglio la propria formazione culturale. Molte volte avendone pieno titolo, qualche volta attribuendoselo da sé. E a sostegno di questa titolarità ci tiene a far sapere di aver letto, studiato, compulsato, imparato questo e quello. Fino a dar vita a dispute filosofiche e letterarie che nobilitano il narcisismo di chiunque vi prenda parte.
C’è quasi da apprezzare tanto zelo culturale. E anche da riconoscerne il valore –tanto più per quanti si portano in spalla il retaggio di Scelba e di quella lontana, infelice polemica. Stando attenti però a non esagerare a questo punto dalla parte opposta. Poiché a un ministro, a un leader politico, a un parlamentare, a un sindaco non si chiede tanto di conoscere i sacri testi. Si chiede semmai di fare in modo, per quanto possibile, che fioriscano altri testi. Magari meno sacri, ma capaci di allargare lo spettro delle nostre conoscenze e delle nostre fantasie.
David Donatello, Geppi Cucciari a Giuli: "Al contrario i suoi discorsi migliorano"

È l’eterno equivoco dell’egemonia culturale. Appare quasi sempre come un merito, quella egemonia, se appena si riesce a conquistarla e/o a farne parte. E invece la politica dovrebbe imparare a tenersene a maggiore distanza. Poiché tutti gli eccessi di zelo di quanti vogliono intestarsela finiscono solo per far sbiadire il confine tra la politica e la cultura. Che invece andrebbe presidiato meglio. Attraversandolo solo in punta di piedi e magari non troppo spesso.
David Donatello, Geppi Cucciari a Giuli: "Al contrario i suoi discorsi migliorano"
